Alle nove Marie LaSalle entra in palcoscenico (si fa per dire, è solo una minuscola piattaforma con su un paio di microfoni, a pochi metri da noi); alle nove e cinque, con forte irritazione e grande imbarazzo, mi ritrovo in lacrime, e il mondo senza emozioni in cui ho vissuto negli ultimi giorni mi crolla addosso. Questo è il Nick Hornby di “Alta Fedeltà”, quando Rob Fleming va a sentire Marie LaSalle e se ne innamora. Diciamo che artisticamente è capitato lo stesso tra me e Diana Tejera, che – sinceramente – pensavo fosse un gruppo: «i Diana Tejera», e invece mi sono trovato davanti questa ragazza marcatamente latina, accompagnata da chitarra e violino, e da una voce che, come si dice in gergo giovanile, fa i fossi a terra. Morbida e decisa, dolce e cattiva, avete capito, no? No.
E allora mi sono procurato il suo disco, La mia versione, ed è entrato in loop per diverso tempo prima di riuscire a trovare il tempo di scrivere. Credo di averlo ascoltato abbastanza bene per poter dire che ci sono tantissime somiglianze con nomi decisamente più conosciuti, quali Cristina Donà e Meg, ma con l’aggiunta di una lieve nota acidula nella voce che la rende particolare ed ipnotica. Il disco, a dispetto di ogni regola discografica, si apre con “Scollati le ciglia”, uno dei pezzi più deboli del disco, sul quale però si può apprezzare l’estrema adattabilità della voce della Tejera, che riesce a spalmarsi bene anche su tappeti sonori improponibili. “Scivoli di nuovo” è una canzone che ho già sentito da qualche parte. Oh, porca miseria. Quel “T.Ferro” presente nei crediti è Tiziano, amico di vecchia data della nostra Diana, con la quale ha già collaborato per pezzi che sono diventati de grandi successi… quindi, a prescindere dal giudizio individuale che ognuno può avere sul Latin(a) Lover nostrano, sappiate che qualche pezzo di Diana lo ascoltano le vostre mamme, sorelle, ragazze, e sono già più famose delle vostre band da garage sfigatamente dure e pure, snob e pseudo intellettual-radicalchic. Nel pezzo successivo, “Degni di esistere”, comincia ad apprezzarsi per bene la cifra stilistica di Diana, con la chitarra che si fonde eroticamente con gli archi di Andrea De Cesare (suo unico partner sul palco, nonché firmatario di tutti gli arrangiamenti di archi del disco). “Ma una vita no” è sostanzialmente un “vaffanculo” detto con molto stile, su una melodia molto catchy, fatta di corde stoppate, duduk e violino suonato a singole note, con le mani, e poi si arriva a “Sogno imperfetto”, il miglior pezzo dell’album, per me che ascolto, sarà che mi piace quel particolare tipo di incedere, la progressione armonica, gli acuti che riesce a tirar fuori una personcina come la Tejera, boh. Fatto sta che il pezzo, unito ad uno dei testi che meglio potrei adattare a chi mi sta affianco anche quando sono “in borghese” spacca di brutto, insieme a “Senso primario”, che assomma in sé tutto il meglio della nuova leva cantautoriale italiana, e parlo di gente come Niccolò Fabi, Carmen Consoli, Max Gazzè, Roberto Angelini. Un arpeggio di chitarra praticamente perfetto, accompagnato da una melodia suadente e da un violino struggente nel finale. Quanto di più “italiano” ci si possa aspettare, a riprova che l’Italia non è il male assoluto. “La tua versione” è il prossimo singolo, quindi un pezzo al quale la nostra tiene parecchio, eppure purtroppo manca un po’ di mordente rispetto a pezzi precedenti, stesso difetto di cui soffrono anche “Black Out” e “Sospensioni”, che probabilmente soffrono anche della sindrome da ultimi pezzi del disco. Sindrome della quale non soffrono invece “Mercurio”, bella senza se e senza ma e “L’artista”, classico pezzo che ascolti, ti distrai e poi torni a sentirlo perché non l’hai capito bene, e ti distrai di nuovo e così via finché non ti entra in mente, col suo ritornello distorto e la voce che, malgrado tutto riesce a reggere la pressione sonora. E ancora un minuto di “Nudità”, che chiude il disco con un bell’interrogativo (“E adesso/che mi sono spogliata/perfino dei miei segreti/come potrò coprire il silenzio?”) che lascia la voglia di riascoltare questo lavoro delicato e monumentale, irruento e sentimentale e di riascoltarlo ancora, che tanto non può che far bene.
(Mario Mucedola)