Immaginate che per andare da Skopje a Podgorica il treno, ovviamente ruvido e arrugginito, passasse per Belgrado e Sarajevo. Immaginate di essere nella ex-Jugoslavia, nel cuore dei Balcani, e percorrere un viaggio di quelli che ormai non si vedono più nemmeno su Overland. I suoni che sentireste ad ogni tappa del viaggio, quando il rumore del treno diventa impalpabile, sarebbero questi. Suoni balcanici. Ma non balcanici come Goran Bregovic, nel senso di intrisi di coretti e suoni perpendicolari tra loro, intendo dire balcanici nel senso di rigorosamente schematici, quasi come se si riuscisse ad ascoltare la geometria.
Si comincia con “Pop Corno”, rivisitazione di Pop Porno de Il Genio, che deve la sua ironia al fatto di essere ri-arrangiata con un corno che sostiene l’intreccio vocale. Ma non è ancora tempo per arrivare dall’altro lato dell’Adriatico, segue infatti “Cric”, che nelle sue atmosfere è molto anni ’30, e sarebbe probabilmente la perfetta colonna sonora per un reading di “Il grande Gatsby” di Fitzgerald. Cominciamo a spostarci spazio-temporalmente con “Turchetto”, la terza traccia, nella quale la fanno da padrone gli strumenti a fiato, dall’oboe al fagotto, dal corno al sax. Non si fanno mancare nulla, e i suoni diventano già più rarefatti, e molto vicini all’idea di mitteleuropa che abbiamo ben fissa in mente. “Rumori di sottomarino” è un pezzo che non riesco a descrivere, non riesco a parlarne bene. È l’unico pezzo cantato, ma sarà che non mi piacciono le voci che si arrampicano su ghirigori melodici predefiniti, sarà che non mi piacciono tutti quegli ohoh-oooh che mi fanno odiare anche Giorgia, ma credo sia decisamente il pezzo peggiore del disco, ed è un peccato perché il testo è davvero meritevole, ma comunque il tutto è ovviamente solo a mio parere. Per fortuna la situazione viene subito ristabilizzata con “Optional” e la sua parte finale più alta di un tono, come nella migliore tradizione della musica italiana, capace di creare un ottimo melting-pot tra realtà dell’est fuse con la tradizione dello Stivale. Mentre “Il Sorpasso” ha un incedere circense, nel quale – a patto di chiudere gli occhi – si nota la simpatica carovana di zingari tristi, stanchi e mascherati che arriva in città. “A quai” è il riarrangiamento dell’omonimo pezzo di Yann Tiersen, che sicuramente avrete ascoltato nella colonna sonora de Il fantastico mondo di Amelie, film che ha una delle migliori colonne sonore della storia. Nel riarrangiamento degli Ochtopus manca quel sottile strato di violini nervosi in sottofondo, ma ciò non pregiudica assolutamente la bellezza del brano, anzi! Lo rende più asciutto, più scarno, ed è evidente il rimando al progetto “Musica Nuda” di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti: dimostrare che, anche senza suoni sintetici, anche senza riempire eccessivamente lo spartito, si riesce a comunicare con uguale – se non maggiore – intensità. “Texas” si apre su un giro di chitarra dannatamente folk, di quel folk che è stato mille volte scopiazzato da presunti cantautori italiani, senza tuttavia riuscire mai a donargli quella dignità stilistica che assume in questo brano, seppur sovrastato dai fiati: entra in mente con la facilità con cui la lama trapassa il burro. E ancora, “Mi chiudo in Mi”, che porta quell’aria di festa post-bombardamenti, con il complessino in piedi su un piedistallo instabile, mentre fuori il tempo è buio e grigio, le donne stringono i bambini in braccio e gli uomini, con gli abiti lisi si tolgono il cappello in segno di rispetto. “Ne La val dla câna”, i dieci minuti (un’eternità per tutti quegli artisti compressi a far musica passabile in radio) le percussioni annullano qualsiasi altro strumento, riuscendo comunque a non annoiare. “Galeron” è un brano tradizionale venezuelano, mentre tornano gli acrobati circensi in “Polka miselia”.
Gli Inti Illiman…ah, no, scusate. Gli Ochtopus chiudono quest’album con “Matilde”, alla quale manca davvero solo il flauto di Pan, anzi zampoña (è chiamato così in quella parte di mondo), per essere un brano completamente andino. Ci vedi i pastori, ci vedi i cileni e i boliviani con quegli imbarazzanti cappelli con le orecchie lunghe, ci vedi i lama e gli alpaca. È questo il lavoro degli Ochtopus, una “carovana” come si definiscono nel libretto del disco a metà strada tra il Cirque du Soleil e la raffigurazione ipnotica e immaginifica dell’est. Un viaggio intorno al mondo in circa tre quarti d’ora, un biglietto di sola andata per il Niente Apparente.
(Mario Mucedola)