Con gli Offlaga Disco Pax in città, diventa tutto un paradiso socialista. Dal pakistano che non ha resto e ti vende la birra a metà prezzo fino ai tram, vecchi e stanchi dinosauri dai piedi piccoli che al prezzo di un lungo viaggio – nemmeno poi così tanto panoramico – sulla Prenestina a prova di stomaco ti portano al Circolo degli Artisti. Il Circolo è diventata un po’ la mia seconda casa, ci ho vissuto così tanto tempo lì dentro che so già chi ci sarà, cosa farà e come si muoverà, e gli occhi di Max Collini, immobile nella sua statuaria interpretazione, tradiscono un po’ di abitudine, emozionandosi appena sale sul palco. Niente chitarre, niente basso, un casio di niente. Anzi, si. Ci sono LE Casio. Tastiere gloriosamente made in Japan negli anni della Guerra Fredda, quando io sicuramente, voi probabilmente, non si era ancora nati, e che tornano ciclicamente di moda in mano a presunti paladini dell’electropop o indie sfigati che pensano che un pezzo vintage possa far loro conoscere le gioie del mainstream. Gli Offlaga fortunatamente non appartengono ad alcuna di queste due categorie, loro portano sul palco stralci di vita della provincia emiliana, colorati di rosso a tinte fortissime e piene di personaggi in cerca di riscatto; e il suono delle Casio non può far altro che farti sentire dentro il racconto, nel pieno degli anni ’80, quando il socialismo non era già più come l’universo: in espansione, e nemmeno un sogno, ma una solida realtà (Carlino-Collini. La liaison immobiliare c’è, lo ammetto). Così come sono una solida realtà gli Offlaga,
che possono permettersi il lusso di destrutturare le armonie musicali dei loro pezzi e rimpiazzarle con dei suonini dell’epoca di Pac-Man e Space Invaders senza risultare banalmente nostalgici o ammiccare bonariamente al rétro, che ora va tanto di moda. La scaletta del concerto prende sapientemente pezzi tanto da Socialismo Tascabile quanto da Bachelite, e si comincia con “Superchiome”, poi la solenne “Ventrale”. Lungimiranza, con il suo sfondo politico amaro e “Khmer rossa”; Dove ho messo la Golf? e poi una piccola sorpresa. Un pezzo nuovo, ma nuovo in ogni senso. Per ora noi la chiameremo Isla Dawson, che ti butta a calci in culo fuori dalla nebbiosa Emilia e ti spedisce in Cile, a sud della Croce del Sud. Dallo Stretto di Magellano a Cavriago il passo è breve, così breve che dal carcere in cui era rinchiuso Luis Alberto Corvalán dopo due minuti ci si ritrova nel negozio di dischi dal commesso snob dal “Tono Metallico Standard”. Poi il silenzio, e Max al centro del palco stringe al petto una pantofola. Il modo più didascalico di far capire che sta cominciando “De Fonseca”. E poi la storia del chirocefalo del lago di Pilato raccontata in “Fermo!”, e l’elenco telefonico di Reggio Emilia per introdurre “Onomastica”. “Robespierre”, che è forse il pezzo più rappresentativo del percorso artistico del trio emiliano viene lasciato in ultimo, appena prima della chiusura affidata ad un estratto di “L’ultimo disco dei mohicani”, libro di Maurizio Blatto edito per Castelvecchi Editore dal quale viene estratto un racconto molto divertente sulla genesi del suono dei Massive Attack. Si chiude così, con la malinconica uscita di scena dei tre quest’ora e venti di Musica, questo tuffo indietro nel tempo, questo concerto al ritorno dal quale tutto sembra così, come dire… laburista.
(Mario Mucedola)
Foto: Luca Carlino