“Make me dance, I want to surrender/ Your familiar arms, I remember“: i primi versi del nuovo album dei Belle and Sebastian sono questi, e sembrano leggermi nel pensiero.
Voglio procedere con ordine, ma avviso fin da ora che in questa recensione non ho alcuna intenzione di essere imparziale. E’un processo strano ed è quasi impossibile rendersene conto mentre accade, quel che si sa è solo che un bel giorno, certi gruppi che solitamente ascolti, iniziano a essere definiti “di culto”. Così i Belle and Sebastian sono ormai da anni diventati una band “di culto” e, qualsiasi cosa di diverso dal normale rapporto ascoltatore-musicista questo implichi, bisogna ammettere che quell’espressione accostata al gruppo scozzese, più che in altri casi, appare dannatamente azzeccata.
Senza imporsi come personaggi carismatici e particolarmente ribelli, senza portare alcuna rivoluzione musicale, i Belle and Sebastian per un buffo scherzo del destino che gli ha colti impreparati sono diventati a metà degli anni novanta un punto di riferimento per molti, me compreso, che hanno visto in loro dei nuovi romantici, squattrinati e un po’ sfigati, coi quali poter familiarizzare, dato che i panni da duri e puri degli ultimi nichilisti grunge per quanto ci affascinassero non sembravano essere della nostra taglia.
Le atmosfere in cui la band si muove riprendono da sempre quelle degli anni sessanta, e le melodie morbide e riconoscibili sono accompagnate da testi in grado di raccontare, da Tigermilk fino ad oggi, di ragazzi che avrebbero potuto avere le nostre sembianze, cresciuti spesso all’ombra dei coetanei più fighi e vincenti.
Era perciò inevitabile che quelle canzoni finissero nelle nostre compile definitive e strappalacrime, alcune delle quali effettivamente realizzate, altre solo immaginate: cassette o cd che ci eravamo promessi di consegnare solo alle persone speciali, semmai le avessimo incontrate.
Terminato il preambolo nostalgico e semplicistico di cui solo io sentivo il bisogno, arriviamo al punto accennato inizialmente: Belle & Sebastian, dopo una serie di capolavori dell’indie-pop e a quattro anni dall’ultimo The Life Pursuit, sono tornati con un disco dal titolo non esattamente enigmatico ovvero Write About Love, come se invece nei loro pezzi fossero soliti trattare di fisica quantistica.
Chi si stupisce del titolo dell’album forse non ha molta confidenza coi nostri scozzesi; gli altri, quelli che invece seguono i B&S da un po’, in Write About Love ci leggeranno piuttosto una rassicurazione, la promessa che il tempo passato ad aspettare il nuovo disco non ha cambiato la sostanza delle cose.
Ma allora possono davvero essere di nuovo gli anni novanta se tutti insieme stringiamo i pugni e ci sforziamo forte a crederlo? No. No, perché Stuart Murdoch e soci oggi sono, come è logico, più maturi e l’ispirazione non nasce più stando rinchiusi nella propria cameretta, affacciandosi alla finestra di tanto in tanto. Già “The Life Pursuit” dimostrava che qualcosa era cambiato nella loro musica, suonava molto meno intimistico eppure la qualità delle canzoni dell’album (al netto di qualche soluzione ruffiana) non era inferiore a quella a cui ci avevano abituato in precedenza.
Write About Love è semplicemente un altro bellissimo disco dei B&S, trabocca indie-pop da tutte le parti e in ogni canzone rivendica con forza un posto nello scaffale accanto a The Boy With The Arab Strap e tutti gli altri perché non è proprio da meno.
La differenza col passato, questa davvero tangibile, è che Murdoch qua si fa spesso da parte per lasciare spazio ad altri: alla voce di Sarah Martin infatti è affidata “I Didn’t See It Coming” che è la migliore delle aperture immaginabili, mentre il chitarrista Stevie Jackson canta “I’m Not Living In The Real World” a dimostrazione che per quanta strada abbiano fatto i nostri, il mondo dei B&S è ancora lontano dal combaciare col mondo reale, tutt’al più possono provare a dissimulare.
E poi ci sono i duetti. A questo proposito, il brano, piacevolmente retrò, che dà il titolo al disco vede la presenza pochissimo ingombrante dell’attrice Carey Mulligan, ovvero la ragazza protagonista di An Education, che nel film appariva così dolce e ingenua da sembrare appena uscita da una copertina dei, indovinate un po’, B&S. E tutto torna.
L’altro duetto, quello che ad un primo ascolto calamita su di sé tutta l’attenzione e fa sobbalzare, è quello con Norah Jones in “Little Lou, Ugly Jack, Prophet John”. Norah Jones: lo riscrivo una seconda volta perché non si pensi ad un madornale errore di battitura. L’effetto che fa è quello di sembrare un brano in tutto e per tutto della Jones, finito per caso in mezzo all’album dei B&S. Alcuni potrebbero trovarlo divertente, altri più radicali si sentiranno traditi ma la verità è che il pezzo si muove dalle parti della mediocrità e accostato alle altre canzoni risulta dimenticabilissimo.
Oltre a quelli già citati inoltre meritano di essere perlomeno segnalati altri due brani: “I Want The World To Stop” e “I Can See The Future”, che personalmente sono fra quanto di meglio abbiano mai prodotto i Belle and Sebastian, alla faccia di chi li crede stanchi.
Chi prima non sopportava gli scozzesi, e al solo nominarli si riempiva di irritazioni cutanee, non cambierà certo idea stavolta. “Va bene essere sentimentali ma una volta raggiunta la quarantina, con tanti anni di carriera alle spalle, è tutto qua quello che riuscite a fare?”, diranno. A me, a noi, ci troveranno sempre e comunque dall’altra parte pronti a rispondere alle critiche facendo spallucce.
I Belle and Sebastian infondo sono dei vecchi amici che ti accolgono nel loro soggiorno che è sempre lo stesso, sempre accogliente anche se la disposizione dei mobili è diversa da come te la ricordavi. Mentre il disco gira ci si racconta degli sprovveduti cronici che siamo, con buona pace dell’età riportata sul documento, prima si balla timidamente e poi ci si lascia andare, e tutte queste cose per un fan dei B&S sono meglio di quanto molte altre band possano offrire.
(Andrea Mazzanti)