Secondo lavoro per Paolo Agosta, che dopo l’esordio targato 2005 torna accompagnato da una band per dare alla luce questo Virus, un concept album sull’amore, o meglio sul suo lato più doloroso, vissuto come una disintossicazione, un vero e proprio viaggio per esorcizzare questo… virus; i testi non lasciano dubbi sul reale contenuto di queste 11 canzoni, le parole sono gonfie di dolore, rabbia, delusione e voglia di ricominciare.
Partiamo dall’inizio, ovvero da “Virus”, buona apertura che unisce vecchie reminescenze nineties nella strofa (chi ha detto Incubus?) e sfocia in un ritornello in odore dei Feeder di Pushing The Senses. “Casa Mia” è un brano più intimo e riflessivo, uno dei più riusciti dell’album, grazie ad una linea melodica dolce sulla strofa e più straziata nel ritornello, ottimo esempio di rock italiano ben riuscito. Dopo questo buon inizio è purtroppo la volta di “Leggero”, uno di quei pezzi che rende imbarazzante la definizione rock italiano, un brano assolutamente mediocre, radiofonico fino allo sfinimento, buono solo per le trasmissioni in tv della domenica pomeriggio. Dopo un minuto e mezzo ho skippato per arrivare a “Piove Sopra Milano”, dalle atmosfere più notturne, una ballata vicina alle sonorità della precedente “Casa Mia”. Ed ecco il crocevia di tutto il disco, la magnifica “Sahara”, un pezzo dove finalmente Paolo si decide ad abbracciare completamente il sound d’oltremanica, e quello che ne esce è un brano vibrante, che esplode in un ritornello epico, potente, deciso, segnato profondamente dalla bella voce e dalla linea melodica semplice ma di grande impatto. Semplicemente una canzone perfetta. Un punto così alto segna indelebilmente un intero album, ti aspetti che da qui in poi si decolli definitivamente, ma così non è. “Fuori Piove” è un buon pezzo ma niente che i Negramaro (i Negramaro poi, non gli Stones) non abbiano già scritto, “Pezzi Di Vetro” si distingue per le chitarre che spingono un po’ di più ed un discreto refrain, purtroppo indebolito da una scelta poco felice delle parole, che da un punto di vista strettamente fonetico suonano artificiose, sembrano incastrate a forza sulla melodia e ti fanno inevitabilmente storcere il naso. Assolutamente innocua la successiva “Mantide” che si muove sulla falsariga della precedente, ovvero ritmi più sostenuti voce più sporca, ma anche qui le parole proprio non girano. Altro potenziale singolone la successiva “Niente”, semplice, diretta, assolutamente già stra-sentita, ma gira abbastanza bene e scorre via piacevole ed orecchiabile. “Ami” è un altro brano niente male, ha un crescendo di grande effetto e un cantato che ti prende lo stomaco, un po’ scontato il ritornello rispetto al grande pathos costruito in precedenza. Per la conclusiva “Riparto Da Me” non userò giri di parole e dirò semplicemente che è un pezzo che mi fa musicalmente vergognare di essere italiano, peggio di una b-side degli Zero Assoluto, roba da locale fighetto che fa live music per la massa di bambocci che si va ad ubriacare il sabato sera. Il fatto che poi sia messa alla fine ti lascia troppo amaro in bocca, tanto che, per ciò che mi riguarda ho schiacciato ancora il play solo perché ero obbligato.
Per giudicare questo disco è come se avessi dovuto visualizzare la due colonne dei pro e contro e sapete cosa ho riscontrato? Che questo disco ha esattamente tanti punti a favore quanti contro, che si annullano a vicenda e il risultato altro non è che la conferma della mia primissima impressione di disco senza infamia e senza lode. Senza dubbio è ben cantato, la band è assolutamente all’altezza e certi arrangiamenti sono veramente raffinati, ma ci sono 2 o 3 pezzi che veramente sono insostenibili, tanto sono palesemente ruffiani ed in poche parole sputtanano tutto il resto. Il sound è vario, parte da un solida base di rock italiano, sfiora l’epicità di band scozzesi come gli Snow Patrol e la parte più easy-listening del suono alternativo americano della scorso decennio, ma alcune soluzioni suonano un po’ datate e altre vengono ripetute troppe volte. A tratti ho avuto anche l’impressione che il sound non sia mai veramente a fuoco e cha, “Sahara” a parte, ci sia il tentativo di tenere il piede in due scarpe con scarsi risultati. E poi il discorso sui testi, a volte un po’ troppo banali e a volte distaccati dalla musica, come accennavo prima, a conferma del fatto che salvo rare eccezioni l’italiano si sposa bene con il rock.
A chi abitualmente ascolta rock italiano comunque potrebbe piacere questo disco, ma per quanto mi riguarda questo è uno di quegli album che non fanno altro che rafforzare la mia convinzione del fatto che questo genere, non è propriamente materia che riguarda il paese del bel canto, salvo ovviamente qualche eccezione che ho avuto anche il piacere di recensire. Se il Liga è sempre al numero 1 d’altronde ci sarà un perché… Mah!
(Andrea Gnani)