Se la rivoluzione in Italia non si può più fare, al rock non sembra andare di certo meglio. Spopola nell’underground questa rivalutazione del punk che tanto piace agli indie fighetti, di colpo nuovamente in estasi per i soliti tre accordi distorti e i fabbri-batteristi. Se negli anni ’90 i gruppetti punk da centro sociale erano giudicati, con sommo disprezzo, buoni solo per i carri da manifestazione studentesca del lunedì mattina, negli Anni Zero tutto ciò è diventato estremamente chic.
Qualcuno poi mi spiegherà con calma la differenza fra questi e quelli, perché io da solo non ci arrivo. Mi sembra abbastanza evidente che nell’ultimo decennio la Musa ha in buona parte voltato le spalle al cosiddetto rock “alternativo” (le band davvero valide si contano sulle dita di una mano), mentre, dall’altra parte, non si contano le ottime uscite in ambito pop e cantautoriale. È davvero questo il meglio che l’Italia può offrire? Eppure si veniva dall’Età dell’oro. Dai vari CCCP, Diaframma e Litfiba prima, Afterhours, Marlene, CSI e Massimo Volume poi. Gruppi che non avevano nulla da invidiare ai loro cugini all’estero.
Per fortuna che ogni tanto qualcosa si muove ancora. E l’esordio discografico dei Vanderlei ne è la prova. L’Inesatto, questo il titolo, vanta la produzione artistica del grande Paolo Benvegnù, che sapientemente guida il sound della band fuori dalle effimere mode musicali di cui sopra, per riportarlo indietro nel tempo, verso i fasti di quindici anni fa. E questa appare davvero l’arma in più dell’ album, che si segnala come una tra le migliori uscite dell’(indie) rock nostrano. Suoni crudi, taglienti, sporchi che si sposano a un gusto negli arrangiamenti e nella produzione che confermano ancora una volta la caratura artistica di Benvegnù. I Vanderlei sono uno di quei gruppi importanti, da tenersi stretti. Fanno rock d’autore, roba che ultimamente scarseggia, e lo fanno con grande classe. Testi ispirati, la giusta dose di malessere esistenziale che non ha mai fatto male a nessuno e qualche eco di Afterhours che, per chi scrive, è pura goduria. Difficile davvero trovare un punto debole a “L’Inesatto”, dove ogni traccia lascia un solco nel cervello e nel cuore, tra fragili percorsi, danze malsane, preghiere laiche e pause laceranti. È bello sentire poesia e distorsioni congiungersi in modo così convincente, dal primo all’ultimo verso. Veniamo cullati sul mare in burrasca da storie che ci parlano di autoaccettazione e sensualità, coscienza della propria fallibilità e piacere carnale; “Siamo piedi bambini in riva all’oceano, senza sapere che fare” (Il fascino dell’attimo) / “Scopami la mente e lascia un seme tra i miei lobi” (Lobi). Cosa si può chiedere ancora?
Nove pezzi. Nove piccoli miracoli, in grado di ferirci e consolarci un istante dopo. Come dovrebbe fare l’amore. Comprate questo disco.
(Federico Anelli)