Si dice “belli e dannati“. Se siano belli non lo so, ma qualcosa di dannato c’è.
Gli Ulan Bator rappresentano un po’ quell’ottocentesco stile bohemien, di una vita libera e disordinata.
L’atmosfera del loro nuovo album Tohu Bohu, ricorda quella dei bistrot di Parigi (non a caso è la loro città d‘origine), quelli fumosi, quelli che devi scovare perché non si trovano sulle guide per turisti. D’altra parte il mondo dell’alternative rock è nato così, negli anni ‘80, con band che si esibivano in piccoli club per pochi ascoltatori.
E il mondo in cui noi ci immergiamo è oscuro, fatto di una voce bassa e profonda accompagnata da magistrali assoli di chitarre elettriche, come in “Missy and the Saviour” e “New Game“. Esse non creano un suono pulito e nitido, ma sfruttano a pieno l’uso della distorsione e dell’elettronica, di cui si occupa Olivier Manchion fondatore del gruppo (nel 1993), insieme all’amico Amaury Cambuzat, che si occupa dei testi, scritti per la quasi totalità in francese, lingua non esattamente alla portata di tutti.
La difficoltà maggiore per noi che ascoltiamo è seguire le parole, cogliere la vera essenza di ciò che gli artisti ci vogliono dire, ma per fortuna esistono sempre le eccezioni e in questo caso lo è “AT”. Il pezzo fonde inglese e francese in un testo caldo e esplicito; tra la confusione più totale nei nostri rapporti umani arriva un messaggio chiaro e deciso, un messaggio d’amore. “A te, a toi” gorgheggia Cambuzat con questa sua voce avvolgente, e in un certo senso quasi erotica, ancora una volta accompagnata dalle chitarre che la introducono, e che ci introducono, in una nuova atmosfera distorta che da l’idea di un amore malato e logorante.
L’intero album sembra un viaggio allucinato e allucinante, più che canzoni potremo definirle piccole poesie messe in musica e recitate con tanta passione e ardore da far salire la pelle d’oca già solo al primo ascolto. È un mondo di sofferenza quello degli Ulan Bator, che viene espressa egregiamente in “Tohu Bohu”. C’è poco spazio per la voce ma ne trova tantissimo la chitarra che, nel suo assolo quasi eterno e stridulo all‘inverosimile, si trasforma in urlo e lacera le orecchie che non possono però fare a meno di ascoltare. Il tutto viene marcato dalla batteria con i suoi colpi secchi, senza virtuosismi né abbellimenti.
Un’ulteriore evoluzione è “R136A1“, decisamente fuori dallo schema impostato in questo album (chitarra, canto, chitarra), nel senso che qui la voce scompare per lasciare tutto lo spazio possibile alla musica. Ciò che si vuol trasmettere è una sensazione di benessere e tranquillità emotiva attraverso atmosfere dolci e candide, come una ninna nanna che ci accompagna per un paio di minuti.
Il mondo degli Ulan Bator sa alternare follia e esuberanza (come in “Speakerine“) ad una lentezza quasi sfibrante ma non soporifera. In un album che merita di essere capito, emerge un unico problema: l’impossibilità per l’ascoltatore di stupirsi di qualcosa. La ricerca di un colpo di scena, di un coup de thèatre per dirla alla francese, è assidua ma infruttuosa, dopo qualche pezzo non ci si stupisce più di nulla e tutto diventa prevedibile, forse un po’ troppo.
(Angela Mingoni)