Shiver Webzine “incontra” via mail i Ka mate ka ora nella persona di Carlo Venturini, bassista della band pistoiese nata nel 2006, tornata nel Novembre 2010 con il nuovo album Entertainment in slow motion per Deambula Records. Un viaggio all’interno della coscienza, che ci risucchia nel suo vortice lisergico, alla scoperta di noi stessi.
Per chi non vi conoscesse bene, potreste presentarvi ai lettori di Shiver?
Molto semplicemente 2 fratelli ( Stefano e Carlo Venturini) e il loro vicino di casa (Alberto Bini), che qualche anno fa cominciano a suonare insieme, forse ancor prima di aver imparato a fa rlo per conto proprio. In questo senso, ci sentiamo molto punk!
Il vostro è un nome decisamente particolare, da cosa nasce l’idea di “Ka mate ka ora”? Ad esempio, navigando in Internet, si parla di un giornale neozelandese di poetica e poesia ma anche della danza tipica della popolazione Maori . Almeno una delle due ipotesi c’entra qualcosa?
La seconda. Nel senso che all’epoca in cui abbiamo deciso di chiamarci così fu proprio per la famosa haka maori, che ancor prima di essere una danza di guerra, è una stupenda dichiarazione della potenza dell’essere umano, che viene descritto come colui che è in grado di riaccendere il sole. Se penso a come siamo abituati noi a percepire l’essere umano, quella visione mi appare piuttosto rivoluzionaria.
Visitando il vostro cont atto Myspace salta subito all’occhio il genere musicale che vi rappresenta: la Psichedelica. Vorremmo saperne qualcosa di più.
A dire il vero, non sono neanche convinto si tratti di un genere musicale vero e proprio. Nel senso che il concetto di psichedelia attiene più ad uno stato mentale che ad una serie di concetti prettamente musicali. In questo senso è bello pensare che la musica possa avere il potere di alterare/ampliare le percezioni. Da questo punto di vista saremmo orgogliosi di essere psichedelici.
Per “Thick as the summer stars”, il vostro primo album uscito nel giugno 2009, vi siete ispirati alla figura del poeta inglese William Blake. “Entertainment in slow motion”, invece; a chi o cosa si ispira?
Non c’è alcun concept nei nostri dischi, né mai ci sarà. Quello che ci interessa, e che abbiamo cercato di fare con “Entertainment in slow motion” è buttar e uno sguardo dentro noi stessi. Osservare e sentirsi osservati. Tentare di riprodurre questa sensazione, analizzarla con i mezzi che abbiamo disposizione. Che poi ci si sia riusciti è un’altra questione.
“Entertainment in slow motion” è caratterizzato da ritmi lenti e rilassati: “La modernità (parole vostre) è lenta e allora i Ka mate ka ora sono fottutamente moderni nella loro sfiancante lentezza”. Altro da aggiungere per meglio spiegare il vostro disco?
Quella frase probabilmente ha più una funzione di auto-legittimazione che altro. In realtà il fatto di suonare lenti è strettamente collegato a quanto ti dicevo prima in merito all’analisi e all’osservazione. La lentezza aiuta a prendere confidenza con le situazioni, con le sensazioni e dunque con noi stessi. Fin qui è stato senz’altro il nostro principale mezzo di indagine.
Leggendo qua e là, tra le vostre influenza musicali, saltano subito all’occhio band importanti come Velvet Underground, My bloody Valentine, Nirvana piuttosto che Sonic Youth. Quanto possiamo trovare di loro nel vostro disco e come vi hanno influenzato queste band nel corso degli anni?
Probabilmente a livello musicale, di influenze, ce ne sono altre più evidenti. In realtà le band che citi, assieme a molte altre, fanno parte della nostra formazione. Magari solo a livello di attitudine, ma qualcosa nel disco c’è finito di sicuro.
Il vostro nuovo album è caratterizzato da eccellenti collaborazioni (Samuel Katarro, Marco Campitelli, Wassilij Kropotkin, Mirko Maddaleno e Serena Altavilla dei Baby Blu e Elettra Capecchi). In due parole com’è stato il lavoro insieme?
Molto istruttivo. Alberto/Samuel Katarro è stato quasi tutto il tempo in studio con noi, ci ha dato idee, consigli e un bel po’ di contributi musicali. E’ stato molto importante e lo ringraziamo per questo. I Baby Blue ci hanno prestato SUGA, che abbiamo coverizzato col loro contributo. La cosa più bella è stato constatare come tutti siano riusciti ad entrare nella nostra musica con naturalezza e umiltà. Il nostro merito è stato solo quello di aver saputo scegliere le persone giuste.
Scegliete qualcuno con cui vorreste assolutamente affrontare una collaborazione.
Alan Sparhawk dei Low o Mark Kozelek, senza dubbio.
Come la maggior parte dei gruppi emergenti italiani, scegliete di cantare in Inglese. A cosa è dovuta questa preferenza? Usare l’italiano toglie o aggiunge valore ad una band?
Non credo ci sia una regola. Nel nostro caso non ci siamo mai posti il problema. E’ venuto naturale scegliere l’inglese, non solo per un fatto di musicalità, ma anche per una sorta di reverenza verso l’italiano. E’ difficile mantenere credibilità, non cadere in fallo e trovare una voce personale usando la lingua madre. Sono pochissimi quelli che ci riescono. E poi non puoi sfuggire al confronto sul piano letterario/poetico, se usi l’italiano Noi non ci sentiamo all’altezza. Probabilmente è un approccio un po’ provinciale alla questione, ma d’altra parte è ciò che siamo. Provinciali.
Parlando ancora di Italia, quante possibilità hanno giovani musicisti di trovare il loro giusto spazio in un Paese come il nostro, non proprio aperto alle novità?
Non chiederlo a noi, non siamo più così giovani!
Com’è il vostro rapporto con i palchi europei? Esperienze recenti?
Mai suonato all’estero finora. Sarebbe bello averne la possibilità, prima o poi.
Quali sono i vostri futuri impegni live?
Contiamo di cominciare a girare un po’ per promuovere il disco da Gennaio in poi. Sperando che ce lo facciano fare!
(Angela Mingoni)