Esistono persone troppo aride e razionali per dischi come questo. Sono quelli che non sanno fare altro che ripetere che la musica di oggi non fa altro che rivoltarsi su se stessa, copiando le cose scritte negli anni 60-70. Ne sento un sacco di questi sapientoni in giro, e sapete una cosa? Francamente da un lato mi stanno stufando, ma dall’altro comincio a pensare che il loro atteggiamento alla fine danneggierà solo ed esclusivamente loro.
Sì, perché contrariamente ad altri, io credo che sia assolutamente vero che nella musica sia difficile (ma non impossibile) inventare qualcosa al giorno d’oggi, ma allo stesso tempo sono ancora capace di entusiasmarmi come un matto quando ho l’occasione di ascoltare un disco “semplicemente” pieno zeppo di belle canzoni, innovative o meno che siano. Questo è l’effetto che Songs For Dead People ha avuto su di me. Karel Zeddandoddo è un bel personaggio, mi piace il suo stile, mi piacciono le note che ha scritto sul web (andare a leggere, please, entrerete ancora meglio nella sua musica) riguardo alla sua infanzia molto Into The Wild, è cresciuto a pane, viaggi in camper e Bob Dylan, e mi piace la sua musica. E ripeto, non mi frega niente se è tutto già fatto e sentito, infatti stiamo parlando di un disco palesemente a stelle e strisce, anche un sordo sentirebbe forte e chiaro il tributo che Karel riserva all’america dei favolosi anni 60-70; c’è tutto, il folk, il rock, il blues, il country, la west coast, il richiamo ai grandi padri fondatori del rock americano (Cash, Dylan).
Quindi cos’è che fa la differenza tra lui e milioni di altri songwriters, vi chiederete voi? Semplice: il cuore. Karel mette veramente qualcosa di speciale in questo progetto, riesce a trasferire in musica le sensazioni che ha provato nella sua infanzia, riuscendo ad emozionare e ad essere sempre credibile perché come dice lui quello è stato il suo imprinting, umano e musicale, quindi non può suonare in nessuna altra maniera se non questa. Non ho ancora parlato delle canzoni, lo so, ma a volte è più importante provare a mettere su carta una sensazione che descrivere in maniera razionale un disco. Vi basta sapere che questi 47 minuti sono un ponte che vi porterà dritti dritti oltreoceano, vi farete una bella corsa in Cadillac al suono di “Karel’s Dream“, “Pink Shoes Gal Blues” o “Bulls’n’Bears”; vi sembrerà di trovarvi dentro uno di quei locali dove si ascolta musica country che si vedono sempre nei film con “I Like You” o “My Heroin Waltz”, magari nel bel mezzo di una rissa tra mandriani ubriachi; oppure vi troverete sdraiati sull’erba a guardare il tramonto al suono di “Lost And Blue”, mentre la torta di mele calda si raffredda sul davanzale. Vi sembra poco? Se la risposta è si, potete tornare ad ascoltarvi i 30 Seconds To Mars, evidentemente non vi meritate altro.
Questo è semplicemente un disco per chi ha voglia di chiudere gli occhi e farsi un bel volo transoceanico Italia-USA in soli 47 minuti, se siete gente che cerca la novità sconvolgente o andate pazzi per le produzioni moderne, suoni aggressivi, synth ed elettronica, questo non è il disco che fa per voi, anche se chiunque dovrebbe dare una chance a tanta sincerità e coerenza. Ma tanto il buon Karel sa perfettamente che chi ha un cuore non potrà fare a meno di questo disco, per tutti gli altri forse non è tempo, o forse non lo sarà mai (cit.)… che siano dedicate a loro queste 11 Songs For Dead People???
(Andrea Gnani)
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