Dove vai? Vado via.
Si, ma dove? Non lo so precisamente. Sento l’urgenza fisica di andarmene.
Quando tornerai? Chi può dirlo? Forse tra un mese forse tra sei anni o forse mai più. Ma ora devo andare.
Ci saranno anche gli altri con te? Certo, abbiamo inziato questa avventura insieme ed insieme dobbiamo percorrerla.
Ok, ma fatti vivo, non lasciarmi con le mani piene di niente. Cercherò di fare il possibile per mantenere un contatto, tu non cercarmi, sarò io a farmi vivo. E poi non è vero che non hai niente… hai quello che siamo stati in passato, hai i ricordi. Certo non si vive di ricordi, ma puoi sempre cullarti con loro quando la nostra mancanza nel presente diventerà opprimente.
Ok, ho capito, Buona fortuna! Non è questione di fortuna, a quella si affida chi non ha speranze, io so che se un giorno tornerò, insieme agli altri, sarò quì, anzi saremo di nuovo quì perchè è qui che dobbiamo stare.
Era il 2004 e la conversazione che hai appena letto è avvenuta in un posto di cui ora non ricordo i dettagli ma solo i contorni, molto probabilmente si è sviluppata solo nella mia testa, sta di fatto che Vince Cavanagh e io ci siamo abbracciati prima che partisse per una destinazione ancora nebulosa e sfocata, lui sapeva di dover andare ed io di dover lasciare che si delineasse il corso del suo viaggio. Non era messo bene, sembrava stanco e un po’ smarrito però era riuscito, ovviamente insieme a tutti gli altri “Anathema”, a dare alla luce il bellissimo A Natural Disaster il quale dava il cambio ad un altro grande album (A Fine day to exit) ed anche quest’ultimo arrivava, a 3 anni, da quel lavoro superbo dal titolo Alternative 4; Tutto quello che chiedeva Vince era di poter allontanarsi per capire meglio come affrontare quello che sarebbe accaduto negli anni a venire, lui e gli altri avevano bisogno di guardare dall’alto il percorso intrapreso con la band; solo distaccandosi da quella creatura potevano realmente capire la dimensione occupata nello spazio/tempo. E così è stato, dopo la piccola parentesi acustica (Hindsight) avvenuta nel 2008, si è dovuto aspettare ben 6 anni per ammettere a se stessi, prima che a tutti gli altri, che forse le vette sono state già toccate, accarezzate e baciate. Il sapore acre ma gradevole che avevano un tempo certe composizioni è cambiato, resta sempre inconfondibile e profondo, ma sta di fatto che il sapore di questi nuovi frutti è cambiato e non riesci a capire cosa è stato aggiunto o sottratto. Poi basta ascoltare due volte l’album per capire dove risiede il corpo estraneo che altera la sapidità di questo nuovo We’re Here because we’re here; il corpo estraneo si chiama Steven Wilson. Il musicista e produttore, nonchè il burattinaio dei Porcupine Tree e Blackfield tra gli altri, si è introdotto nelle ferite sempiterne aperte dell’animo dei nostri, cercando una cura a quella sofferenza con il risultato che proprio da quelle fessure traboccava la genialità della band. In questo nuovo album (che forse chiude il “ciclo dell’acqua”, almeno a vedere le ultime tre copertine) ci sono momenti in cui si respira troppa aria Wilsoniana, il che non è un male, ma stiamo parlando degli Anathema che un identità definità ce l’hanno già. Certo si citerà l’evoluzione, perchè una band dovrà pur provare a toccare il cielo senza staccarsi necessariamente dalle proprie radici, e per farlo ha bisogno di poter utilizzare tutti i mezzi a disposizione, ma capita pure che si perda di vista la destinazione e ci si ritrovi su territori già battuti da altri. E quali sono i brani che maggiormente risentono del tocco di Wilson? Sicuramente il trittico finale “Get Off, Get Out”, “Universal” e “Hindsight” nelle quali si respira proprio un’altra aria (il che per i fan di Steven Wilson dev’essere stato un bellissimo colpo al cuore) che disorienta, come se la band si fosse totalmente abbandonata all’abbraccio del produttore ed abbia lasciato in mano a lui il proprio destino musicale. Quel sapore progressive lo si ritrova però, ma con poca insistenza per fortuna, in tutto l’album, attorniato da una specie di ariosità benefica che si adagia su tutti i brani, una strana e luminosa aura che riveste tutto. Chi, abituato alla penombra di certe atmosfere, si avvicina al disco convinto di trovare un paesaggio notturno, potrebbe rischiare di restare frastornato e confuso dallaluce che ammanta questi nuovi scenari sonori.
Ma non tutto splende di questa nuova luminosità, ed i momenti toccanti in cui Vince e gli altri sembrano consci delle proprie potenzialità arrivano con il nucleo composto dalle già conosciute ed amate “Everything” e “A simple Mistake” alle quali si aggiungono “Dreaming Light” e “Angels walk with us” con la sua appendice “Presence”.
Insomma i ritorni fanno sempre piacere anche quando le persone appaiono diverse. Questo nuovo capitolo degli Anathema, anche se non si incastra alla perfezione con la produzione precedente, resta pur sempre un lavoro raffinato e pieno di sfumature nelle quali perdersi. E se per una volta la luce servirà ad intraprendere un nuovo cammino, allora vorrà dire che proveremo ad immergerci al suo interno per raggiungere la band. Qualcuno parlava di percorso a là Radiohead, dopo Natural Disaster, ma se proprio bisogna avvicinarli a qualcuno, e con le dovute distanze, forse sarebbero più adatti i Pink Floyd, tuttavia sarebbe più giusto parlare e paragonarli solo a se stessi.
Com’è andato il viaggio? Per niente facile, anzi, c’è stato un momento in cui ho rimpianto di essere partito, ma alla fine ne è valsa la pena.
Chi o cosa ti ha dato la forza di continuare? La forza è arrivata con la consapevolazza che il viaggio sarebbe finito quando ci saremmo incontrati nuovamente, quindi la forza mi è stata data dal fatto di sapere che tu eri quì ad aspettarmi.
Come ti senti ora, cosa è cambiato, cosa hai trovato durante il viaggio? Posso solo dirti che ora sono Felice e che prima non lo ero o non del tutto.
(Antonio Capone)