Se il pop italiano da classifica è un animale morente di rothiana memoria, una carcassa marcescente che ormai fa gola solo agli sciacalli delle major e ai loro cuccioli da sempre nutriti a carne guasta e poco altro, quello cresciuto nel sottosuolo del Bel Paese è invece una pianta alta e fiera, i cui frutti sono già da tempo maturi e pronti per essere colti. Gli ascoltatori più attenti se ne sono accorti e li gustano a pieno, mentre i tossici delle radio e di MTV si fanno di quel che trovano, tanto che la roba sia buona o meno ormai non fa più alcuna differenza.
Se fate parte dei secondi, porterò un fiore sulle vostre tombe. Se invece appartenete alla prima categoria, allora vi consiglio di immergere le orecchie nel nuovo disco dei Mambassa e lasciare che vi mostrino le zone d’ombra e quelle ancora luminose del Lonely Planet in cui viviamo. A quindici anni dalla sua nascita e a sei dall’ultimo album, la band di Stefano Sardo torna con undici brani inediti, un pop di qualità, in grado di unire melodie a presa rapida con liriche mature ed evocative. Musicalmente “Lonely Planet” colpisce per la varietà di suoni e sfumature, un caleidoscopio pop, in grado di mostrarci le mille facce del genere. Si inizia con la bellissima “La costruzione della notte”, brano sospeso tra atmosfere lacrusiane e malinconia inglese. La successiva “Nostalgia del futuro” rivela il gusto di Stefano Sardo per una narrazione di tipo cinematografico (ricordiamo il suo lavoro come sceneggiatore e regista), con sonorità che ricordano certi pezzi dei Virginiana Miller. “Immolando” mostra il lato più elettronico e surreale della band, mentre con “Casting” si ritorna metaforicamente al mondo del cinema e alla difficoltà di trovare un ruolo nel proprio assurdo film. La battistiana “La pioggia di settembre” è una ballad molto suggestiva, che entra di diritto nei classici della band piemontese. C’è poi spazio anche per il beat di “Dispari” e la trasognata “Mia”, che non sfigurerebbe affatto nel repertorio di Dente. L’album tocca uno dei suoi picchi più alti con “Ora che non ci sei più tu”, dove il bianco e nero degli anni ’60 si sposa con una rielaborazione del suono decisamente attuale. Se la successiva “Oggi” appare come il pezzo meno convincente della tracklist, i richiami al soul nel ritornello di “Mi fido di te” sono uno dei momenti di massima ispirazione dell’intero lavoro, che si chiude con l’oscura “Alta marea” (che vede la partecipazione di Robertina Magnetti), sorretta da un arpeggio acustico e un tappeto sintetico dai toni vagamente psichedelici.
Il quinto album dei Mambassa si rivela dunque una guida per uscire (il più possibile) indenni dalla propria traversata, è la boraccia offerta dal tenente colonnello William “Bill” Kilgore a tutti i soldati in grado di combattere con le budella in mano: forse non cura le ferite, ma scalda decisamente il cuore.
(Federico Anelli)