A guardare la metà sinistra del poster, riportato in parte anche sulla copertina, contenuto nel nuovo album dei Pazi Mine si resta affascinati e turbati allo stesso tempo; Un amasso di tubi contorti grigi e rugginosi formano una specie di città post industriale che si edifica all’infinito, fin dove lo sguardo riesce a percepire qualcosa, partorito dalla mente di un giovane Giger (deviato da letture Lovecraftiane) architetto di strutture abitative claustrofobiche, meno violento e privo di parti anatomiche ostentate e con un tratto più morbido nel disegno. Poi apri completamente il poster e noti che il lato destro è meno angosciante dell’altra sua metà ma l’impatto è comunque forte perchè in primo piano, davanti a tutto, c’è una casa sulla spiaggia, un mare placido, il cielo paglierino scopre un’alba che sta per sorgere e lacerarsi su grosse lame che fendono l’aria come tentacoli mostruosi che fuoriescono dal colosso imponente descritto poc’anzi.
E le sonorità che si trovano all’interno del debutto dei 4 Pazi (in line up non più in movimento da un po’ di tempo vede Sara alla voce e chitarra – Mirko alla batteria – Francesco al Basso e Marco alla seconda chitarra) non si discostano dal lavoro visuale scelto per presentare il “packaging”; Le chitarre alternano sprazzi noise in cui si avverte quanto siano affilate ed hai paura ad alzare di più il volume per non restarne sfregiato come nel brano di apertura “Witness of a recurring dream”, o in “The Waves You’re Cradled By Just Happen To Make Me Sick” ma soprattutto durante “Rip Yourself Open, Sew Yourself Shut”, quest’ultima sorretta dalla voce (o meglio, dalle urla) di Gionata Mirai (Super Elastic Bubble Palstic/Il Teatro degli Orrori) che affianca e dà supporto al canto di Sara Ardizzoni la cui voce, finanche nei brani più sostenuti da un’accecante malignità, ammalia con la sua tranquillità di fondo pronta però ad attirarti tra le sue spire. Tuttavia l’album regala anche altre visioni meno dinamitarde delle sopraccitate canzoni, c’è posto per le suggestioni ricamate a là A Perfect Circle, periodo Thirteen Step, del trittico “Here”,“Standstill” e “Square the Circles”. Quello che invece colpisce del disco non è la violenza calibrata pronta a sfregiarti ma i momenti in cui tutto rallenta e si fa nebuloso, proprio in quei momenti sale (o sarebbe più opportuno dire “scende”) una sorta di rassegnazione guidata dalla voce di Sara molto spesso appesa sullo stesso registro, a relegare la propria condizione in un vortice inquieto e melmoso, appoggiata su basi che sfiorano le ambientazioni dilatate e slow-core di Neurosis o Isis, meno paranoici però, come in “Dissect” con i cori/mantra di Giulio Ragno Favero, il quale ha curato anche il mastering del disco (mentre la produzione artistica è stata messa nelle mani di Giovanni Ferliga degli Aucan), ma è soprattutto nella conclusiva “The Thaw” che i toni si fanno cupi e soffocanti e le certezze vanno via via sgretolandosi: “What has been built on you/staggers for pain/My love… The ground is slowly drifting/ The Thaw si dim and glowing”.
L’album omonimo dei Pazi Mine si ritaglia un fazzoletto di terra all’interno della scena musicale italiana. Una piccola isola in movimento senza coordinate ben delineate, in parte ancora incontaminata e abitata da strani individui pronti a depredare il tuo cuore non appena ti sarai avvicinato quanto basta a ciò che luccica nelle loro mani.
(Antonio Capone)
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