Parlare del nuovo disco degli Arcade Fire, e di quello che gli Arcade Fire oggi rappresentano, senza lasciarsi prendere la mano o ripetere quel che è già stato tante volte detto non è un compito molto facile, perlomeno per me. Una volta uscito Funeral credo di non aver ascoltato altro per un intero anno. Con Neon Bible ricordo invece di non essere riuscito a provare di nuovo quello stesso amore incondizionato, ma fu abbastanza chiaro che chi andava cercando delle conferme dai canadesi, in quel disco le aveva trovate eccome.
la band a quel punto era già considerata un punto di riferimento per più o meno tutto quanto avesse a che fare con l’indie rock ed oggi, dopo una storia neanche decennale, sono un fenomeno mondiale al pari dei Radiohead tanto per fare un esempio, protagonisti di eventi come un mega-concerto in diretti mondiale su youtube dal Madison Square Garden eppure ancora capaci di funzionare come culto per, relativamente pochi, illuminati. Apprezzati nonostante qualche remora perfino dai talebani dell’indie rock che vedono nella bassa fedeltà la soluzione di tutti i mali.
Gli Arcade Fire fin qui sono stati capaci di mettere d’accordo quasi tutti grazie alle loro orchestrazioni “diversamente” tradizionali, caratterizzandosi per il suono elegante e barocco, tuttavia mantenendo allo stesso tempo l’urgenza e l’attitudine che contraddistingue le band alternative, e forti poi della doppia voce: quella enfatica e dolente di Win e quella più nobile e soave di Regine. In due soli dischi hanno messo insieme una quantità di brani che sono praticamente già dei classici e che funzionano alla grande anche per noialtri che la musica la ascoltiamo in macchina e perfino in cucina e che cantiamo sguaiatamente in coro i nostri oh oh. A far passare in secondo piano quell’immagine snob e “sofisticata” del gruppo è bastata poi l’energia travolgente dei loro live.
Rispetto ai due precedenti il nuovo disco, “The Suburbs”, è più lungo ed eterogeneo e, quasi come ai bei tempi dei concept, affronta un tema in particolare che è appunto quello della periferia (che non dove essere necessariamente solo quella canadese) dalla quale si fugge per poi ritornare. Un disco lungo, dicevo, perchè si compone di sedici tracce per un’ora abbondante di musica, durata che per alcuni potrebbe essere eccessiva e considerata dunque come una debolezza, come un deterrente all’ascolto dell’album. Butler e soci in effetti non tagliano nulla, con la conseguenza che i brani meno immediati dell’album, quelli meno tirati in cui gli Arcade Fire usano un po’ meno chitarre per creare il solito pathos, rischiano di passare inosservati. Eterogeneo invece perchè dentro si trova di tutto, dal synth all’organo rinascimentale. Lo stesso Win Butler non più di un paio di mesi fa aveva annunciato il nuovo lavoro discografico come qualcosa di simile ad un incontro fra i Depeche Mode e Neil Young.
L’inizio del disco riesce comunque ad attirare l’attenzione: il brano che dà il nome all’album sembra di ispirazione british ed è tutto costruito su di una linea di pianoforte. Di seguito “Ready to Start” rappresenta il vero e proprio inizio alle danze, un classico brano tanto grintoso quanto decadente a là Arcade Fire che non è difficile immaginare come apertura per ogni concerto futuro della band. Nella alienata “Modern Man” viene fuori quanto ci sia di Bowie dentro la musica dei canadesi, mentre con la beffarda “Rococo” (a proposito di quanto siano insulsi i ragazzini al giorno d’oggi) si fa un passo indietro alle atmosfere di Funeral. La stessa cosa si potrebbe dire poi della veloce e catartica “Empty Room”, primo brano dell’album in cui la voce di Regine Chassagne non si limita a fare i controcanti. Data la facilità con la quale ci si lascia andare al grido di “when i’m by myself/ I can be myself/ when my life is calm/ but i don’t know when”, “Empty Room” risulta uno dei pochi inni del disco eppure questo non fa molta importanza, dal momento che è inutile riscrivere quello che è già stato scritto all’esordio. “The Suburbs” prosegue con “City With No Children” che pesca dai classici del rock americano, e con le due parti che vanno a comporre “Half Light”, la prima più eterea e la seconda più elettrica e incisiva. Echi di Springsteen e Young in “The Suburban War” introducono alla sorprendente “Month of May”, praticamente un pezzo punk piazzato nel bel mezzo dell’album che nel migliore dei casi non può che spiazzare. Scorrendo la tracklist si trovano ancora un paio di episodi da sottolineare prima che l’album si concluda: “We Used to Wait”, canzone corale e disincantata che personalmente reputo uno dei pezzi migliori del disco e “Sprawl II”, sorprendente electro pop dalle parti dei The Knife con la quale gli Arcade Fire ci aprono tutto un mondo. L’ultima dimostrazione che un talento compositivo del genere è capace di andare in ogni direzione e fa grossa fatica a stare chiuso dentro i pur labili confini di un solo genere musicale. Gli Arcade Fire insomma azzardano nuove soluzioni sonore pur con quella straordinaria abilità di caricare ogni nota di commozione e magniloquenza ma ad ognuno nel buio della propria camera spetterà decidere se The Suburbs sia un disco migliore o peggiore dei due che lo hanno preceduto, quel che è certo è che in entrambi i casi non si può che parlare degli Arcade Fire come la più importante band del panorama indipendente mondiale, meritevole di tutto l’hype che li circonda.
In un universo popolato da artisti che durano il tempo di un disco e che sembrano essenziali per non più di una settimana, con questo solido “The Suburbs” il collettivo canadese infatti non cede nemmeno di un centimentro e conferma di esser ben saldo al centro della scena.
(Alberto Mazzanti)