Hai presente quando sei in stazione ad aspettare il treno dentro il quale viaggia una persona a te cara che non vedi da diverso tempo, diciamo da tre anni?
Il bagaglio di emozioni ed aspettative mette in circolo un carico di adrenalina quasi palpabile da accecare tutto quello che hai intorno. Eppoi il treno arriva. I passeggeri scendono in modo confuso e l’attesa termina quando il tuo sguardo si posa sulla persona che aspettavi ma c’è qualcosa di diverso nel ricordo che avevi di quest’ultima. Dettagli. Il taglio di capelli o un accessorio insolito ti lascia interdetto per qualche secondo prima che l’incontro sfoci in un abbraccio liberatorio. Questo è ciò che è successo tra me e la band americana.
I primi ascolti di High Violet mi hanno alquanto destabilizzato perchè non riuscivo a focalizzare il percorso intrapreso con questo nuovo capitolo musicale. Erano ben impresse in me le piccole pietre scure e preziose raccolte nel capolavoro a nome Boxer (del 2007) e mi ritrovo a fare i conti con questo nuovo album molto più diretto ma meno a fuoco, nel complesso, rispetto al precedente album. Brani come il singolo “Bloodbuzz Ohio”, “Runaway” o “Conversation 16” sono di un livello così alto che molte delle produzioni uscite in questi anni possono solo invidiare. Matt Berninger resta sempre un crooner sublime ma qui non si toccano i livelli di “Fake Empire” o “Squalor Victoria” dove la sua voce scava dentro di te una calda voragine e gli arrangiamenti orchestrali ti stordiscono tanta è la bellezza emanata, qui invece gli archi ed i fiati sono messi quasi in secondo piano a beneficio di un immediatezza che di fatto trasfigura ciò che di buono era stato fatto in passato. High Violet resta un po’ in bilico su una rupe con la paura di non riuscire a volare ma allo stesso tempo impaziente di sentire il vento schiaffeggiare il viso (il pacato post-punk da camera di “Anyone ghost” e la semi acustica “Lemonworld” ne sono un esempio) mentre si guarda la città dall’alto. Il finale dell’album però torna a riagganciarsi alle cose migliori (così come ci ha provato l’opener “Terrible Love”) proposte in questi anni dai The National; “Vanderlyle Crybaby Geeks” si schiude con un piano delicato, accompagnato da un piccolo e malinconico stuolo di archi che regalano un elegante conclusione all’album.
I dettagli saranno pur importanti. I capelli hanno cambiato taglio e colore e gli abiti non sono più così scuri come li ricordavo, ma l’abbraccio caldo e sincero è quello dell’arrivo che diviene subito partenza e chissà se tra qualche anno ci rincontreremo nella stessa stazione o in luoghi del tutto inaspettati.
(Antonio Capone)