Se pensassimo davvero che le parole di questa intervista potevano risultare inutili non avremmo incontrato, anche solo virtualmente, il giovane cantautore di origini campane. Il titolo è volutamente una provocazione (e non un insulto nei suoi confronti), un invito alla lettura soprattutto per chi non conosce lo spessore musicale di Grillo, il quale ci ha gentilmente concesso un po’ del suo tempo aprendo la porta dei suoi pensieri. Le parole non sono mai inutili se lasciano un segno e non sono inutili quelle riversate in questa intima intervista. Intima… anche se a distanza e sfalsata dal tempo.
Come vedi e cosa sono per te il Teatro, la Poesia, la Musica?
Sono il mio pane quotidiano, sono il mio lavoro, la mia aspirazione, la mia ispirazione e tanto altro. Sono fidanzate, mogli, conosciute in periodi diversi della mia vita e che d’un tratto si sono trovate a convivere in piena armonia. Canto da sempre, amo la poesia dall’adolescenza, è stata uno specchio e una palestra, soprattutto quella “maledetta”, lo “spleen”. Il teatro è una passione recente, amo quello di ricerca, le sperimentazioni, la meravigliosa capacità di alcuni registi di pensare per immagini e trasformarle in azione scenica, di dire senza dire ma immaginando modi diversi di parlare.
Cos’è la solitudine?
La solitudine è una compagna fedelissima, la più fedele di tutte. Sa esserci in ogni occasione, anche in mezzo alla gente, alla folla; è solitudine dello spirito, della coscienza. Viene dal disagio dello stare al mondo o dalla sofferenza di un abbandono, di una perdita. Non sentirsi adatti a certe dinamiche del mondo, a quello che si ha intorno, non essere capiti, non avere spalle forti, dona all’uomo solitudine profonda. Come dico in una canzone del disco “è sempre più scura…” perché non ci si abitua, è un vuoto che non diventerà mai un pieno soltanto perché si è imparato a conoscerlo.
Il tuo album d’esordio riporta ad atmosfere chiaro/scure e ad una tradizione cantautorale tipicamente italiana, insomma ti vai a confrontare con dei veri e propri titani (es: Fabrizio De Andrè). Non hai avuto mai paura di confronti/critiche da parte della stampa mentre elaboravi l’album?
Pensavo di aver evitato la tradizione cantautorale, scopro ora, da te, di esserci caduto in pieno. Ho vestito le canzoni con abiti inconsueti per il cantautorato. Non sono un grande ascoltatore di cantautorato italiano, eccezion fatta per de Andrè, che ha appunto giocato continuamente con i cambi d’abito, e che, per più motivi, è riduttivo definire solo “cantautore”. Non è un caso che io abbia scelto di fare la mia tesi di laurea in Filosofia su di lui, sul suo pensiero e sulla sua arte. Amo la musica in senso letterale, un certo cantautorato italiano la subordina eccessivamente al testo, per i miei gusti. Generalmente sono molto influenzato dagli ascolti, sono un divoratore, adoro stare al passo con i tempi, conoscere le nuove uscite, i nuovi artisti. Questo mi aiuta a non ripetere ciò che è già fatto e a cercare strade diverse. Non avevo assolutamente idea che le canzoni a cui lavoravo sarebbero diventate un vero disco e, soprattutto, che sarebbero finite nelle mani della critica. Dunque non mi sono preoccupato, è stato un lavoro totalmente spontaneo. Dopo ho iniziato a pensarci, ho temuto che risultasse troppo “grave”.
Cosa ama e odia Guido Maria Grillo?
Amo la spontaneità, la sincerità, non c’è arte senza la libertà totale del pensiero e dell’azione da qualsiasi forma di precostituzione. Amo la melodia, la pelle d’oca che genera, amo le emozioni che può generare la soddisfazione di sé, la consapevolezza del proprio buon lavoro. Amo che agli altri piaccia quello che faccio e come sono, è tutto ciò che serve per andare avanti.
Odio l’imbroglio, i furbetti, quest’italietta, l’arte preconfezionata e pensata a tavolino, la musica usa e getta, la radio italiana, la televisione italiana, quelli che mi fanno vergognare di essere italiano, una classe politica che è riuscita a convincere tutti che la politica è un affare sporco, mentre è uno dei più nobili mestieri del mondo, quelli che non hanno le proprie idee perché hanno demandato le proprie facoltà mentali alla coscienza collettiva della tv, di facebook e di tutto il resto. Odio anche altre cose che al momento non mi vengono in mente.
In una società sempre più plagiata dai media, quali sono le nostre verità? Siamo ancora figli di una tradizione che, ormai, nelle giovani generazioni, sembra dimenticata?
Ho involontariamente appena risposto a questa domanda. Le giovani generazioni sono lo specchio di questa Italia, non hanno colpe, ce li hanno i loro genitori ed il mondo che hanno costruito intorno. I giovani sono innocenti ma, in buona parte, sono davvero un disastro. In prospettiva un decadimento culturale, sociale, relazionale che non ha eguali. È triste dirlo. le nostre verità, come quelle della mia canzone, sono le “nostre” e basta, quelle che custodiamo e che ci fanno essere quello che siamo. I nostri affetti, il nostro piccolo universo, i nostri valori, in questi tempi più importanti che mai.
Ascoltando il tuo album si percepisce il dolore che ti porti dentro (o che portano dentro i personaggi dei tuoi testi) ma che in qualche modo è stato superato, restando solo un ricordo che riaffiora, qual è la tua medicina contro quel dolore?
No, in realtà non è stato superato, a non esserci più è solo la causa che lo genera. Quella è un ricordo. Se riesci a percepire il dolore è solo perché l’intero album è uno sfogo puro, senza filtri, senza schemi, senza regole, un flusso, quasi un dettato automatico. Mi basta sapere che questo arrivi, aldilà del gusto personale, del bello e del brutto, semplicemente che dia e generi emozioni. Purtroppo non ho medicine, neanche il tempo basta da solo, o meglio, è sufficiente nella misura in cui lo sono le distrazioni che contiene. Rinchiusi in una stanza a pensare al proprio dolore, non basterebbero cento anni!
Devo dire che la canzone che mi affascina di più è “Inutili Parole”, pezzo tra l’altro inserito anche nella compilation di Shiver. Che significato dai alle parole e che cosa leggi principalmente?
Le “inutili parole” sono le parole “circolari”, quelle che si ripetono periodicamente in certi casi ed in certe situazioni. Sono quelle che amanti illusi si sussurrano sempre uguali, per poi smentirle o vederle smentite. Sono quelle che precedono la delusione, quel senso che De Andrè, con un lirismo fuori dal comune, racchiudeva nel verso “…e tu che con gli occhi d’un altro colore, mi dici le stesse parole d’amore…”
Leggo poco e soltanto poesie e saggi, di filosofia, storia, temi sociali, politica. Non leggo romanzi da anni, non mi piacciono le storie inventate, non mi danno basi solide su cui appoggiare la mia passione.
Quale è la tua opera teatrale preferita e perchè?
Difficile dirlo, il testo non saprei, so, però, qual è lo spettacolo che mi è piaciuto di più in assoluto:
Studio su Medea di Antonio Latella, travolgente.
Che cos’è per te innovazione?
Il non ripetere e ripetersi, consapevoli della storia che c’è dietro. Andare avanti non deve essere mai ignorare il passato. Che sia bello o brutto, quello che è stato è sempre una base da cui partire, quindi di cui essere consapevoli. Il male si deve certamente rinnegare, ma non ignorare, altrimenti si rischia di ripeterlo. Non ci sono altre regole per l’innovazione, eccezion fatta per l’estro, l’ispirazione, il talento, la capacità di guardare oltre quello che si vede.
Quale canzone o album non puoi fare a meno di ascoltare o ti porti dentro?
In realtà ascolto poco il mio disco, capita di andare in overdose. Ogni tanto, quando riascolto per caso, scopro certi dettagli, melodie, sensazioni, come nel caso di “Le nostre verità” o “Quello che resta” o “Solitudine”. Continua a piacermi perché è uno sfogo sincero, è come trovare un vecchio diario e leggere del proprio passato.
Parlavamo prima di tradizione cantautorale italiana, mentre in ambito internazionale chi prendi come punto di riferimento?
Come dicevo, mi piace seguire le uscite, stare al passo, scopro continuamente dischi nuovi a cui mi appassiono, spesso in maniera viscerale. È accaduto con Antony, con DM Stith, in passato con Lhasa e con Jeff Buckley. Adoro anche band come The Black Heart Procession, cantautrici come Larkin Grimm, Hanne Hukkelberg, cantautori come Wovenhand, Damien Rice e tanti altri. Non è tanto il modo di scrivere, comunque, a rimanere influenzato dai riferimenti, quanto gli abiti, la veste, i suoni, gli arrangiamenti, i colori.
Dopo questo bell’esordio ci aspettiamo sicuramente una riconferma, hai in progetto l’uscita di un nuovo Album? Anticipazioni a riguardo?
Si, molto prima di quanto si possa credere. In questi giorni sto ultimando le pre-produzioni, credo che a fine anno, o al massimo all’inizio del prossimo, il parto sarà concluso.
Spero si tratti di una riconferma, anzi, di un miglioramento, secondo la formula descritta sopra: che tenga il buono del passato e vada avanti migliorandosi. Sarà un disco diverso, con un approccio più rock, giusto un po’ di rabbia in più ed un po’ di dolore in meno, un suono più aperto. Probabilmente un proseguio necessario, dopo il dolore, la reazione.
Ti chiedo, in chiusura (ringrazioandoti), un messaggio per chi ci legge.
Cari lettori di Shiver, coccolati dall’ottimo lavoro di questa redazione, restiamo uniti per migliorare e miglioraci, scopriamo il mondo senza timori, premiamo l’arte e ciò che vale, e sputiamo su quello che vogliono farci credere lo sia ed abbia valore. Amiamo la verità. Un colpo di reni per sollevarci dal fango!
(Stakanovista Rock)
Leggi la recensione dell’album – Scarica la compilation con il brano “Inutili parole”