Secondo capitolo, questo, nella storia della band vicentina. E’ un disco che va subito al sodo, senza fronzoli, essenziale e scarno. Sin dal primo pezzo si è strattonati da un basso scatenato e prepotente, quasi mai distorto, sempre penetrante. Il ritmo è scandito da una batteria martellante che a tratti definirei quasi punk rock (vedi “The Duck”, forse il miglior brano del disco).
La chitarra procede pervalentemente per bicordi o addirittura monocordi, che , come contorno ad un basso così presente, mi ricorda un po’ gli Editors. Il suono delle sei corde è quasi sempre pulito, e questo determina non dico una piattezza in quanto a dinamica delle canzoni, ma i pezzi stentano ad “esplodere”, cioè non c’è mai un’apertura di suono di sfogo. Si rimane in un procedere cupo e omogeneamente cadenzato, il che suscita molte reminiscenze new wave anni 80. La voce, spesso doppia con il flasetto, è efficace, ipnotica; “Where your nose is” si fa canticchiare parecchio e volentieri dopo averla ascoltata anche solo una volta riproponendo la scuola impartita nei primi anni ’90 dai Placebo di “Bruise Pristine” e “Come Home”.
Le influenze che si possono percepire sono molte, ma il risultato è originalissimo. Un paio di nomi che mi sentirei di fare sono Franz Ferdinand, White Lies, con una spruzzata di grunge e una forte impostazione post rock.
In definitiva un disco quadrato, senza sbavature o dilungamenti, con tutto il necessario per essere un ottimo lavoro e per dare ai Polar For The Masses un’aria da band d’oltremanica piuttosto che italiana, che di questi tempi (purtroppo) è tutt’altro che una pecca.
(Alberto Tessariol)
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