Una grossa nube copre da tempo il cielo di Manchester, grosso modo sarà lì da più di vent’anni ed a intervalli irregolari scaglia sulla terra fulmini elettronici che rimbalzano sui muri cercando di trasformare quell’energia in suono, molto spesso accade, e quando avviene, qualcosa di fresco si respira nell’aria. I primi ad essere colpiti furono i New Order che riuscirono ad incanalare la gelida furia post-punk dei Joy Division in qualcosa di più organico, oscuro, ballabile e soprattutto nuovo per quel periodo (parliamo dei primi anni ’80).
Strascichi di quella prima lezione di synth-pop, codificata con un rock energico, sono qui racchiusi nel secondo album dei Longcut (Manchester è il loro quartier generale, proprio come i Hook e soci), i quali giocano con le tastiere mentre fuori la nube un po’ si dirada. Per nostra fortuna la band non cerca di scimmiottare chi li ha preceduti ma ne rielabora il suono, appropriandosene.
Le tracce che difficilmente vi lasceranno immobili sono tante; si passa dalle atmosfere danzerecce da indie-club figo di “Something Inside” (e qui incombe sui nostri lo spettro, anzitutto nella voce, dei The Music) o la quasi del tutto synthetica “Evil Dance” dal crescendo ammaliante, dove le chitarre restano in disparte per affacciarsi solo nel finale. La title-track è il giusto connubio tra l’elettronica presente nelle band nu-rave ed i guizzi rock degli ultimi Bloc Party, il cui richiamo viene avvertito anche nei pezzi più nu-wave come “Tell you so” o “Out at the roots”, nella quale i Longcut sembrano la versione meno cazzona e più guitar-oriented dei Klaxon.
Nell’epicentro di “Open Hearts” si intravedo dei brevi intermezzi strumentali; la grezza e incendiaria “You Can Always have more” e la riverberata “At any time” che nulla fanno per motivarne la presenza.
Si cade leggermente di tono verso la fine dell’album, con la lunga ed a tratti sfiancata “Mary Bloody Sunshine”, immersa nel finale post-rock a là 65 Days of static che ne risolleva leggermente le sorti, e la profetica “Repeated” (mai titolo fu più azzeccato) dove le chitarre un po’ stanche si mescolano all’ossatura elettronica, creando una piccola bolgia di suoni disordinati.
Il finale è tutto inclinato verso la parte di cuore più elettronica della band; si passa dalla indietronica sporca e delicata di “Boom” alle ambientazioni synth-gaze di “The Last one here”, quest’ulitma dal suono di chitarra stratificato che viene diluito in un finale calmo e notturno.
Viene da pensare che effettivamente c’è una nube nell’aria di Manchester che contagia le band che vi si trovano sotto ed I Longcut di sicuro sono riusciti a trarne beneficio con un album eterogeneo ed avvincente nelle sue molteplici sfaccettature.
(Antonio Capone)