C’è una grande camera, spoglia e con vecchia tappezzeria che il tempo ha scrostato. Sulla parete a nord c’è un’entrata che nasconde un’altra stanza. C’è un uomo davanti a quell’entrata, ride beffardo e fa segno di proseguire il cammino. Al suo fianco un vecchio grammofono solca la sua appendice su un disco e quello spazio freddo si riempie di un suono sinuoso; un violino fende l’aria mentre una chitarra stride e tutto diventa ancora più irreale. È solo l’inizio. È solo “Matter Horn” che apre l’album dei Bad Apple Sons. Nella seconda camera si innalza un suono acre e tagliente che macchia la semioscurità intorno; “The Claim” è una sfuriata nichilista ed aggressiva. Un sogno ossessivo che gli ultimi Bauhaus (ma anche l’ultimo Manson) non sono riusciti a partorire. Le pulsioni post punk di “Take this Mortal Tea” con la chitarra che sferra rasoiate nell’aria greve mentre basso e batteria orchestrano una trama opprimente lasciando addosso una certa agitazione.
Non c’è luce in queste stanze. Solo una densa massa capace di far girare la testa. “Backroom Facials” apre spiragli di morboso ardore e le parole macchiano la bocca (“I saw my body crounching on her/ I wanna stick it in her mouth/ I wake to find her breath on my flesh”) mentre l’Hammond dona al brano una certa inquietudine sonora che si insinua nell’epidermide.
Le successive due “stanze sonore” placano momentaneamente il furore post-punk a beneficio di un mood più dilatato (“Whales are watching”) e tribale (Y.O. Screaming Monkey), quest’ultima richiama agli Einsturzende Neubauten. “Namby Pamby” ci catapulta nuovamente in una spirale oscura; Se i Bad Apple Sons avessero avuto Geoff Barrow (produttore degli ultimi Horrors) a disposizione, probabilmente ora sarebbero in giro per l’Europa come i 5 allampanati inglesi.
Prima di entrare alle ultime due stanze c’è un’ anticamera con pesanti tende alle finestre, le quali lasciano a malapena filtrare un po’ di luce. Sembra di essere già stati in questa stanza. Ma è solo un’ illusione perchè “Matter Horn II” contiene strascichi di quel suono sentito in apertura. La tensione emotiva resta attaccata al corpo fino alla fine e quando riecheggia “I’m the Cutter” si ha l’impressione di ascoltare una “Bela Lugosi’s Dead” del nuovo decennio: Lenta, fascinosa e angosciante si dipana in una lunga (9:13 minuti) “suite” perversa che scende nel profondo delle viscere con i suoi versi “I can surprisingly clear my slave, my own love/ My own love flesh of my flesh/ and dispite it is a prose/all we hear is my heart beating in overdose/mmmmm I’m the cutter”. Prima di rivedere la luce c’è un ultimo passaggio da affrontare; “Brag About” scarna e pungente ci accompagna verso la porta sul retro.
Siete sicuri di voler rivedere la luce, quando invece il buio è così affascinante?
(Antonio Capone)
Myspace – Scarica la compilation con il brano “The Claim”
http://www.youtube.com/watch?v=0FfQRaVzlWw