Si parla tanto in questi tempi di fughe; scappare via da questo paese che sembra non voler offrire nulla a chi ha un progetto che si discosta da quello imposto dal “sistema”. Che sia politico, sociale o musicale non importa, se vuoi fare musica (parliamo di questo, no?) in Italia o ti pieghi ai compromessi imposti e confezionati ad hoc o resisti e porti avanti le tue idee che spesso sbattono contro un muro. Oppure fuggi. L’idea di fuga della band è riportata in più punti.
Primo: Il nome. Un atto di ribellione verso qualcosa (un amore, la famiglia, il “sistema”) che impedisce di esprimersi e quindi di programmare una partenza.
Secondo: La copertina. Una valigia di pelle chiusa in modo abbastanza anomalo con dello spago ricorda quelle dei primi italiani che “invadevano” l’America (allora eravamo noi i clandestini) con tutta la propria vita racchiusa in una valigia di cartone.
Terzo; La musica ed i testi. I Plan de Fuga prendono le distanze da ciò che è riconducibile all’italianità (o Made in Italy, fate un po’ voi) già dal cantato in inglese. Il riferimento più evidente delle sonorità è nella scuola cantautoriale americana con le chitarre non sempre distorte che hanno quell’odore melodico e malinconico degli Ours in “Your Side” e “Twice” (il miglior brano dell’album) dove lo struggimento lirico cola dai testi “I wish i was more tahn this to you/ I wish i was right/I wish i was more than me/ I wish i was twice”. L’intimismo romantico e bruciante passione tanto amato da Buckley Junior in “Living room Light” (“now my light is you, what you do, that can make me see the truth”) e “Never need”. “In a Minute” (ma anche “Orange Room”) se fosse cantata in italiano e da un certo Giuliano “c’ho lo spasmo” Sangiorgi sarebbe sicuramente in heavy rotation su tutte le radio italiane. Ma ritorniamo al discorso iniziale sugli ingranaggi marci che fanno muovere la musica e quindi la band ha una visibilità su canali diversi. Resta il fatto che la voce di Filippo è due spanne più in alto del salentino avvinazzato.
Su registri diversi viene eseguita “Deca-dance” con le chitarre che ritornano al tocco mediterraneo e la ritmica che non lascia immobili durante l’ascolto o “Blame”, con i suoi movimenti nervosi e decisamente funk. Tuttavia all’interno dell’album vi si trovano echi di Counting Crows (più nell’attitudine che nella musicalità), ne sono un esempio la morbida “This Time” con accenni di tromba nell’appendice finale o la conclusiva “Violaine” dove un pianoforte accarezza il brano, e tutto è avvolto in un sospiro nostalgico mentre la “petite” Violaine del testo scarta il suo regalo di compleanno.
Un album diverso e vero. Diverso da quello che si sente in giro ultimamente. Vero perchè non si avverte nessuna forzatura o scimmiottamento della band a questo o a quell’artista, bensì laddove si scorge una similitudine, dovrebbe essere vista e vissuta come un omaggio sincero a chi li ha preceduti.
Se in Italia non è possibile fare ciò che si desidera allora converrebbe prendere quella valigia e partire perchè un album come questo non può restare in ombra.
(Antonio Capone)