Come una sorta di cerchio che si chiude, mai giorno fu migliore per raccontare ciò che l’udito assimila. Fuori nevica. Guardo la copertina dell’album ed è lo stesso bianco che sta investendo tutto quello che c’è lì fuori. Il fatto è che non si tratta solo di assonanza di colori o del paesaggio invernale in copertina. Il fatto è che “Tajga” echeggia glaciale proprio come se la band avesse suonato con l’influenza atmosferica di quei paesaggi. Sembra quasi di vederli, in trasparenza, tra gli alberi sottili e scuri, suonare per catturare il mood che pervade questo secondo album.
L’apertura spetta a “Exemple de Violence” con una sorta di mantra siderale che ci introduce in una foresta sonora infestata da spettri, nascosti tra gli alberi, invisibili ad occhi distratti ma ben presenti in tutto il contenuto di Tajga. Il testo di questa prima canzone è in francese, forse influenzato dalla ormai consolidata collaborazione di Amaury Cambuzat (leader degli Ulan Bator), al quale è affidata (come nel precedente “Erotomania”) la produzione dell’album. Ma il cantato francofono è un episodio quasi isolato (accennato ancora nella coda di “Degrees”), perchè già nel finale del primo brano si affacciano i testi in inglese e “Tundra” ci accompagna lentamente, con passo morbido, verso un ineludibile destino. Non ho il timore di paragonare molti dei momenti di Tajga al periodo oscuro dei Cure, quello che va da Faith a Pornography, dove un peso incombente, per il tempo che passava con il suo peso soffocante, martoriava i pensieri di Robert Smith. E proprio “Swallow” si apre con una domanda sul tempo: “Time as come/Isn’t a crime?” con le chitarre affilate come lastre di ghiaccio che fanno da traino al brano, mentre nella semi strumentale “Eleven Years” ritornano i fantasmi percepiti nel percorso intrapreso all’inizio.
Il secondo album dei Marigold si discosta alquanto da “Erotomania”, uscito due anni fa, il quale mostrava una forza organica che qui lascia spazio alla coltre densa e riflessiva di brani con una lenta cadenza sonora: “Sin” è sorretta da percussioni e basso pulsante mentre Marco Campitelli sussurra una strana preghiera su un tappeto invischiato di elettronica. Le atmosfere si ammorbidiscono nella title track dove la presenza di Daniele Carretti (Offlaga Disco Pax/Magpie) e di un pianoforte conferiscono al brano un aura intima e fragile. Ritroviamo elementi di elettronica ed influenze dark wave (un pò in tutto il disco a dirla tutta) in “Degrees” dove i sussurri si dilatano e si diluiscono con la seconda parte del brano, il quale dona nuova linfa vitale ad un inizio apparentemente lento. L’intermezzo di “Novole” serve solo a mostrarci la fine del sentiero. Verso il termine di quel paesaggio gelido e desolato. Verso che nei suoi arpeggi shoegaze ci palesa per l’ultima volta quegli spettri. Gli stessi spettri che non ci hanno mai abbandonato lungo il viaggio e i quali ora ci lasciano soli nel bianco assoluto ed accecante della fine (dell’album). Non resta che guardarsi indietro e ripercorrere di nuovo quel percorso per ammirarne la bellezza.
(Antonio Capone)
Myspace – Scarica la compilation con il brano “Tundra”