Anno 2007. Un sibilo continuo e fastidioso chiude il primo album della band, sembra il suono che emanavano a tarda notte i televisori, ad indicare la fine delle trasmissioni.
Anno 2009. Un altro sibilo continuo e teso apre il secondo album de Il Teatro Degli Orrori, quell’onda sonora però si è trasformata; ora sembra il grido di un elettrocardiogramma piatto. Un minuto di tensione, sperando in una pulsazione, un battito che non arriverà mai. Quello che arriva invece è l’ansia di aspettare fino a tarda notte, in casa, una persona cara e sentirsi impotenti davanti agli eventi. Inizia così “Io ti aspetto”, con un pathos drammatico, rintoccato dalle lancette di un pianoforte quasi senza speranza. Si resta straniati, immaginando un inizio al fulmicotone come fu quel Dell’Impero delle Tenebre che sancì un nuovo punto di partenza per il rock italico, ed invece ci si ritrova davanti ad un Pierpaolo Capovilla con il cuore in mano mentre intona “mi avevi detto ritorno a casa presto/ma son le quattro del mattino/ e non so quante sigarette/ il telefono non squilla mai/ e piccole dosi di brandy/ ma io ti aspetto/ sai io ti aspetto”. La furia sonica che conoscevamo parte dal secondo brano che esplode con un’anima noise e corrosiva; “Due”, sputa sul ricordo di un amore andato, implorando pietà a Gesù, Giuseppe e Maria. Mentre il brano che dà il titolo all’album (nonchè primo singolo) è un inno incendiario alla memoria dello scrittore Ken Saro Wiwa, colpevole soltanto di aver cercato di proteggere la propria terra dai signori del petrolio. Ritorna anche in questo album il ricordo per una persona; Tom (Dreyer, caro amico della band ricordato in “La Canzone di Tom” nel precedente disco) e Ken Saro, morti in modi diametralmente opposti ma accomunati dalla scrittura di Capovilla che ne esalta il ricordo.
Si nota, comunque, già dai primi ascolti che qualcosa è cambiato, rispetto al primo album, nella struttura sonora; i brani sono più aperti a nuove “sperimentazioni” e contaminazioni. È il caso di “Direzioni diverse” dove Bob Rifo (aka Bloody Beetroots) sporca il brano con pulsazioni elettroniche che non disturbano ma, anzi, impreziosiscono il tutto conferendo un’aura alienante al mantra di Pierpaolo; “sarebbe stato bello invecchiare insieme/la vita ci spinge verso direzioni diverse/ti prego ascoltami/ascoltami bene almeno una volta” ed in “La Vita è Breve” dove non c’è lo zampino di Bob, ma ci sono comunque diversi elementi “synthetizzati”. Ma non è solo in questo frangente che si scorge il cambiamento; Un passo in avanti verso un’urgenza sonora diversa, la quale nel primo capitolo era devastante ed accecante mentre in questo nuovo lavoro sembra tutto sottilmente studiato. Il bersaglio è stato messo a fuoco ed è impossibile sbagliare (a Sangue Freddo, appunto).
La prosa di Capovilla resta comunque sincera e disarmante nella sua semplicità (discorso a parte per “Majakovskij” dove Pierpaolo recita, come se fosse su un palco guidato dall’alto da Carmelo Bene, “All’Amato Se Stesso Dedica Queste Righe L’Autore” dello scrittore russo Vladimir Majakovskji), e attinge a piene mani dalla vita che gli scorre davanti agli occhi; usa e destruttura modi di dire (“Mai dire Mai”); “con questa storia del mai dire mai/ho detto e fatto cose/che mai e poi mai avrei voluto dire o fare mai/ma chi se n’a fotte“, gioca con le parole e cita De Gregori (“A Sangue Freddo”) e Celentano (“Alt”), Nanni Moretti (“Mai dire mai”) e mastica un Padre Nostro con parole ubriache di vita e disperazione (“Padre Nostro”).
Si può tranquillamente affermare che A Sangue Freddo è un album denso, rifinito e non lascia spazio a mezze misure, dove i testi sono sassi scagliati contro l’ipocrisia ed il populismo becero, e la musica si apre a nuove soluzioni melodiche e potenti restando comunque fedele alle proprie radici. Il disco finisce. Il sipario è ormai calato, Pierpaolo sudato si affaccia, ci sputa in faccia e se ne và.
(Antonio Capone)
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